To be or not… to Bop
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#Marginalia undici
Possedere davvero un’arte significa padroneggiarne talmente alla perfezione le regole, da capire quand’è il momento di infrangerle.
In principio era lo spartito… poi arrivò Dizzy Gillespie!
Ultimo di nove figli, poverissimo e autodidatta, John Birks Gillespie (per noi – e per tutti – Dizzy) inizia a suonare la tromba a 12 anni. Nonostante ottenga una borsa di studio in un college della Carolina del nord, la sua indole anticonformista lo spinge ad abbandonare la scuola… l’insofferenza alle norme imposte, dunque, era già iscritta nel DNA!
Alla fine degli anni ’30 molla definitivamente lo studio e si dedica a tempo pieno alla musica, guadagnandosi importanti ingaggi nelle big band di New York.
Una, in particolare: l’orchestra del Cotton Club di Harlem diretta da Cab Calloway.
Musicista, cantante e perfino attore hollywoodiano, Calloway era un animale da palcoscenico a tutto tondo, molto severo con i suoi musicisti… specie quelli un po’ “sopra le righe”. Eppure, “sopra le righe” e oltre gli spazi degli spartiti, era il posto preferito di Dizzy, più volte richiamato all’ordine da Cab per le sue improvvisazioni inaspettate.
Somigliava quasi ad un matrimonio combinato il loro: la diligenza di Calloway e il genio di Gillespie mal convivevano, infatti, sullo stesso palco… e, alla fine, il giovane trombettista viene liquidato con un anatema terribile: “Non imparerai mai a suonare jazz, non diventerai mai un vero musicista!”
Negli ultimi anni ’40, sulla east cost, il jazz era solo afro-americano, incazzato a giusta ragione ma – soprattutto – bisognoso di una svolta: doveva veicolare i valori di una generazione “beat”, ossia “stanca”, “abbattuta”, ma “sul tempo”.
Prima che Jack Kerouac e Allen Ginsberg coniassero un’etichetta per la Beat generation, Dizzy Gillespie gli diede una colonna sonora: il bebop!
Nella sua autobiografia (da cui ho preso in prestito il titolo del #marginalia di oggi) Dizzy racconta che lui e Charlie Parker, nel ’45, vivevano entrambi sulla 52esima, a qualche isolato di distanza. Un giorno Parker si è presentato nella sua stanza d’albergo con il sassofono. E, metaforicamente, non è mai più tornato indietro.
Hanno suonato per ore ed ore, senza riuscire a fermarsi… finalmente, da quel momento, i riff improvvisati dei lunghi assoli, non erano più una parentesi: erano il nuovo modo di comporre!
È opinione comune che la Beat Generation abbia avuto fisicamente inizio alla Columbia University, dall’incontro di Kerouac, Ginsberg, Hal Chase, Lucien Carr e altri. Io dico che la Beat generation, senza il bop afro-americano, non sarebbe stata la stessa… forse non sarebbe neppure esistita.
Sembrava impossibile abbandonare per un momento gli spartiti, lasciare ai coraggiosi la facoltà di infrangere le regole musicali e sociali, conquistarsi a suon di morsi ed assoli un posto talmente nuovo nel jazz da non essere più neppure considerabile soltanto jazz.
Sembrava impossibile anche il ’68, la lotta sociale, la rivendicazione dei diritti. Eppure…
Ha ragione Kerouac, «La Beat Generation è un gruppo di bambini all’angolo della strada che parla della fine del mondo dopo averla letta sui libri».
Ha più ragione Parker, «Padroneggia il tuo strumento, padroneggia la musica, e poi dimentica tutte le cazzate e suona soltanto».
Funziona anche con la vita, sapete?
Baci velenosi (e improvvisati),
Vanì Venom