Migration rhymes with Salvation
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#Marginalia ventiquattro
Le divinità sono restie a mostrarsi alla razza umana. Se ne stanno, fin dai tempi più antichi, nelle loro dimore celesti, sovrastando l’esistenza terrena e intervenendo solo quando è strettamente necessario sulle sorti dei comuni mortali. Ma cambiando, in quell’istante, la storia del mondo per sempre.
Così immagino la mia Trinità, arroccata non su un pantheon qualunque e neppure dentro un eremo sperduto. La Trinità – mia e di tutti quelli che amano quest’universo fatto di musica in vinile – vive dietro il vetro sottile di una sala di registrazione. Una Trinità così potente da produrre miracoli musicali, così provvidenziale da gestire le fila del destino di vite che, altrimenti, non sarebbero mai diventate i miti che adoriamo. Una Trinità che ha nome Atlantic, Chess, Modern.
Ahmet e l’amore per i dischi
La migrazione è intrinseca alle vicende umane da epoche remote. I movimenti dei popoli sono connaturati alla loro apparizione sulla faccia del pianeta… e, per fortuna, portano a spasso per il globo personaggi che hanno il potere di renderlo un posto nettamente migliore!
Figlio dell’ambasciatore turco in USA, Ahmet Ertegun nasce nell’ex impero ottomano nel 1923 e approda negli States a soli 11 anni, manifestando – giovanissimo – un sentimento smodato per le sonorità black.
Rhythm and blues, jazz, country, rock and roll, gospel i suoi primi amori, coltivati con la dedizione di chi trascorre ore – interminabili, ma sempre troppo brevi – all’interno del Quality Music Shop di Waxie Maxie (il leggendario Max Silverman) per imparare il più possibile sul business discografico.
Al cuor non si comanda, ma alla macchina economica bisogna essere avvezzi per farla girare dal verso giusto. Così, quando il padre muore e la madre e la sorella tornano in patria, Ahmet non ci pensa un secondo a lasciare la terra dove ha scoperto la sua più grande passione, ma comprende anche di aver bisogno di una base solida su cui fondare il suo futuro impero.
Quando Ertegun si mette in testa di entrare nel business discografico, è consapevole di dover collaborare con qualcuno con un solido background nella produzione. Perciò si rivolge a Herb Abramson, collezionista di dischi, organizzatore di concerti e già collaboratore di diverse etichette. Ahmet corre a New York e rimane con Herb e sua moglie Miriam. Nell’ottobre 1947, nasce l’Atlantic Records, con il sostegno finanziario di un dentista turco, il dottor Vahdi Sabit, che concede ai due sognatori di vivere liberamente il proprio progetto, lasciando carta bianca sulle scelte di produzione e fregandosene il giusto dei guadagni.
Grazie Polonia, grazie Ungheria!
Mentre l’Atlantic, senza pregiudizi e con coraggio da vendere, incideva sonorità del calibro di Ruth Brown, Big Joe Turner, Stick McGhee, Ray Charles e innumerevoli altri artisti di colore, due astri nascenti – anch’essi gestiti da uomini provenienti da lande lontanissime dall’America – muovevano i primi fortunati passi nell’industria discografica.
Un tratto in comune ci ha salvati tutti, regalandoci la possibilità di azzerare le distanze e i limiti di un razzismo latente, ma finalmente sconfitto: non c’è appartenenza più viscerale che quella ad una passione comune. L’unica patria riconosciuta, non solo all’Atlantic, ma anche alla Chess e alla Modern, è la nazione della musica.
I polacchi Leonard e Phil Chess da una parte, gli ungheresi Lester, Julius, Saul e Joseph Bihari dall’altra: la Chess e la Modern, due facce della stessa medaglia.
A Chicago la prima, a Los Angeles la seconda, le due etichette sono le principali responsabili del successo di Little Walter, Howlin Wolf, BB King, Etta James, Lightin Hopkins, Chuck Berry.
Sono le responsabili, soprattutto, di aver cambiato non solo la storia della musica, ma la visione che i fruitori – spesso bianchi e pregiudiziosi – avevano avuto fino a quel momento della stessa.
Chi ha attraversato mari e monti pur di prendersi il riscatto che le origini non gli hanno concesso, chi ha migrato e sa quant’è amaro il pane mangiato in un posto che non sa se diventerà mai “casa”, ha la sensibilità e l’ardore di rendere “casa” ciò che ha costruito con fatica e passione.
E “casa” è dove nessuno è lasciato indietro, giudicato, emarginato: “casa” è dove un turco, due polacchi e quattro ungheresi restituiscono, per la prima volta, ad una moltitudine di afroamericani la fama indiscussa che meritano.
“As long as I’m moving“ Direbbe Ruth Brown
La migrazione è una condizione dell’anima.
Spostarsi non è solo un gesto fisico che conduce chi lo perpetra a mutare luoghi e abitudini. Migrare significa, anche a soprattutto, cambiare lo sguardo sulle cose.
Quello sguardo che questi “stranieri” indirizzavano da dietro il vetro delle loro sale di registrazione, quello sguardo eloquente che urlava a gran voce “Stranieri rispetto a chi?”
Non erano americani i produttori, non erano americani i musicisti. Eppure hanno fatto grande l’America e la musica americana.
Perché è una merda quando qualcuno sceglie per gli altri questa o quella etichetta: “straniero”, “nero”, “gay”, “donna”.
L’unica etichetta che conta è quella discografica.
Da oggi, vintage lovers e atei incalliti, avete una Trinità da pregare!
Baci velenosi e amen vari,
Vanì Venom